Ristoranti e negozi: cosa rischia chi apre?

Intervista con l’Ingegnere Giovanni Corsi, uno dei massimi esperti in fatto di sicurezza in Toscana.

Crescono timori e preoccupazioni di ristoranti e attività commerciali in vista della riapertura. Sarebbe auspicabile poter ottenere un PROTOCOLLO SICUREZZA post #coronavirus, certificato, che metta al riparo gli imprenditori da facili accertamenti e grovigli burocratici.

Ne parliamo con l’Ingegnere Giovanni Corsi, uno dei massimi esperti in fatto di sicurezza (segue da anni per il Comune di Firenze e i principali organizzatori di grande eventi musicali l’applicazione delle leggi in merito).

Con lui affrontiamo il tema caldo del momento: come si organizza il mondo del commercio in vista della riapertura?
E, soprattutto, come può mettersi al riparo da contestazioni, multe e vari incubi che, in Italia, dove vige una sistema burocratico frammentato e vessatorio, sono sempre dietro l’angolo?

 

1 - Distanza tra i tavoli, mascherine al personale di sala e cucina, accessi differenziati, pagamenti preferibilmente digitali al tavolo, monitoraggio quotidiano delle condizioni di salute dei dipendenti, pulizia e sanificazione dei locali, gel igienizzante a disposizione di tutti….

Sono solo alcune delle misure che i ristoratori devono predisporre per la riapertura dei loro locali, prevista dal 1 giugno in tutta Italia.

Come vedete dal vostro osservatorio professionale la capacità del mondo della ristorazione e dell’impresa commerciale in generale ad adeguarsi a queste regole?

Dal 1994 con la famosa 626 (poi con Prodi n.81 del 2008) sono entrate nel mondo del lavoro italiano nuove idee. Anche il Legislatore aveva capito che le prescrizioni e la genericità non portavano a niente e si dovevano viceversa utilizzare nuovi concetti di “valutazione “ e “specificità del lavoro”.

Tuttavia, con la fase 2 di recente emanazione, quella che nelle attese doveva permettere una ripartenza, siamo rimasti ancora alle prescrizioni tipiche delle norme degli anni 50 del ‘900. La stessa INAIL invitava a valutare i rischi con lo stesso metodo “evoluto” che già tutti gli imprenditori utilizzano, definendo tre indici significativi:

    Esposizione: la probabilità di venire in contatto con fonti di contagio nello svolgimento delle specifiche attività lavorative (es. settore sanitario, gestione dei rifiuti speciali, laboratori di ricerca, ecc.);

    Prossimità: le caratteristiche intrinseche di svolgimento del lavoro che non permettono un sufficiente distanziamento sociale (es. specifici compiti in catene di montaggio) per parte del tempo di lavoro o per la quasi totalità;

    Aggregazione: la tipologia di lavoro che prevede il contatto con altri soggetti oltre ai lavoratori dell’azienda (es. ristorazione, commercio al dettaglio, spetta colo, alberghiero, istruzione, ecc.).

Dopo la valutazione ognuno nella propria responsabilità avrebbe dovuto definire apposite strategie di sicurezza e non dispero che prossimamente si possa andare in questa direzione.

Ad oggi viceversa abbiamo una serie di norme trasversali che si ricollegano alle norme della Organizzazione Mondiale della Sanità già applicate per l’epidemia H1N1, che forse qualcuno si ricorderà; molta acqua è passata ma le indicazioni sono le stesse di allora, che va detto a modo loro hanno funzionato e che in sintesi evidenziano tre aspetti:

    l’analisi di processo lavorativo nell’ottica del distanziamento sociale fra i lavoratori;

    il rischio di contagio connesso con la tipologia di attività specifica;

    il coinvolgimento di terzi (nei processi lavorativi e per aggregazione sociale).

In particolare però non è ancora chiaro DOVE sia la responsabilità del Datore di Lavoro (o più semplicemente del Titolare) una volta che ha adempiuto alla norma. Il Titolare deve accogliere le prescrizioni “generali”  e secondo me anche implementarle per la sua specifica realtà facendo quanto possibile, ma una volta fatto questo NON ritengo che gli possa essere addebitata una responsabilità di contagio. Tengo a sottolineare che l’esposizione al COVID-19 dal punto di vista del meccanismo di possibile contaminazione e di valutazione del rischio è analogo al rischio influenzale; di conseguenza la valutazione del rischio per l’agente biologico COVID-19 è genericamente connessa alla compresenza di esseri umani sul sito di lavoro ed il contagio non è direttamente collegato alla mansione svolta, a parte le attività sanitarie.

Quindi:

1.il titolare se rispetta le norme prescrittive NON può essere considerato  responsabile  di contagio;

2.il sistema attivato coerentemente alle disposizioni deve essere riconosciuto e efficace, ma non deve essere una semplice raccolta di fogli e generiche volontà (come purtroppo è successo in questi anni in merito all’applicazione delle norme sulla sicurezza, magari anche fotocopiate!);

3. il nuovo sistema avrà sicuramente un costo aggiuntivo da valutare attentamente perché si dovrà intervenire anche sulla organizzazione in precedenza affinata.

Tutto questo porta alla domanda: si tornerà come prima? No, basta pensare alla famosa norma sul controllo delle piazze per il terrorismo, che è entrata a far parte del DNA degli eventi ma che ormai con tranquillità viene gestita da grandi e piccoli organizzatori. Dunque dovremo imparare a convivere con le norme anticontagio – anche se e quando riviste - a prescindere dal virus COVID19, così come lo smart working entrerà nel ciclo produttivo standard delle aziende.

 

2 - Dopo la peste viene il boia, disse qualcuno…. Oggi la preoccupazione di tantissimi imprenditori della ristorazione è come dare seguito concreto alle prescrizioni che si prevedono, riuscendo ad eseguirle bene ed evitando dunque il più possibile il rischio di incorrere in sanzioni e contestazioni.

E’ possibile, alla luce della tua esperienza e competenza specifica, mettere a punto un modello concreto, un protocollo tecnico specifico, che possa essere certificato da aziende preposte, così come avviene per altre normative già in essere?

Posso citare l’Ordinanza della Regione Toscana che impone una distanza di 1,80m invece che 1,0m della norma nazionale. Tale distanza viene dalla OMS che definisce distanza di sicurezza “2 yarde”, ovvero 0,91X2=1,82 m – quindi anche la Regione, pur nella sua solerzia, è sotto di ben 2 cm! Ma valutiamo tutti che tale differenza non sia significativa.

Arrivo al punto: in precedenza ho avuto modo di occuparmi di certificazione di qualità, di sicurezza e di etica. Che cosa hanno in comunque queste certificazioni? Il fatto che sono volontarie e che un soggetto terzo non coinvolto nel processo decisionale analizza i processi, li testa ed alla fine ne dichiara la conformità a norme tecniche di riferimento.

Ecco dunque che abbiamo un percorso ben definito per i nostri settori ovvero:

1.valutazione dei rischi da contagio COVID-19 per i propri dipendenti da realizzare all’interno del sistema sicurezza della ditta/organizzazione

2.applicazione dei protocolli Governo/OO.SS. e vari DPCM ovvero il riferimento esiste già ma va concretizzato sulla singola realtà

3.certificazione volontaria di parte terza ed esperta del sistema realizzato per verificare l’idoneità dei protocolli applicati, sia verso i propri lavoratori sia verso il pubblico.

Consideriamo che le nostre ditte del settore del “food” già operano da anni in un sistema simile che è l’HACCP per l‘igiene alimentare.  Ma rispetto a questa obbligatoria, quella che proponiamo è una certificazione volontaria. Alla certificazione volontaria va riconosciuto lo sforzo maggiore del titolare di fare le cose per bene: su questo ultimo punto bisogna prestare particolare attenzione perché la certificazione può attestare la validità di quanto intrapreso negli anni a venire ed essere un valido contributo di supporto al giudizio su un titolare nel caso di contenzioso. 

Non dimentichiamoci che le Aziende hanno necessità di garantire al cliente qualità, sicurezza ed affidabilità del proprio servizio. Tale esigenza può essere soddisfatta unendo al rispetto della normativa vigente in materia di sicurezza il valore aggiunto dalla Certificazione al servizio offerto ed in grado di soddisfare le esigenze dei Clienti.

La certificazione volontaria quindi, da un lato consente al cliente di conoscere ed avere garanzie sull’Organizzazione alla quale si rivolge, e dall’altro costituisce per l’Organizzazione un mezzo per rafforzare la propria immagine valorizzando allo stesso tempo le proprie caratteristiche del servizio ed acquistando la fiducia del consumatore.


per approfondimenti e contatti scrivere a info@firenzespettacolo.it





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